A volte si muore

a-volte-si-muore

Titolo: A volte si muore

Autore: Claudio Vergnani

Editore: Dunwich

Anno: 2016

Pagine: 402

Prezzo: 14,90 euro in formato cartaceo acquistabile qui – 3,99 euro per il formato digitale acquistabile qui 

Il voto della Kate: No, non ve lo dico, poi vi spiego perché

SINOSSI:

In una città dove intere aree erano preda di criminali e maniaci, di bande mascherate, di stupratori seriali e pazzi sbandati, e sotto il controllo di gangster in doppiopetto, si muoveva un assassino misterioso e invisibile chiamato il Bisbiglio. La leggenda voleva che solo i morti che si lasciava dietro – straziati e oltraggiati – potessero vederlo. Infliggeva una fredda violenza e una studiata crudeltà, muovendosi con astuzia nel buio e nel silenzio. Colpiva quando le sue vittime erano ignare, indifese o deboli. Oppure, al contrario, quando erano certe di essere al sicuro. E, quel che era peggio, non comprendevamo nemmeno perché lo facesse. Non eravamo un passo indietro, eravamo proprio anni luce distanti. Eppure, in qualche modo, sentivamo che il cerchio ci si stava stringendo intorno, che alla fine, in un modo o nell’altro, lo avremmo visto anche noi…

LA RECE DELLA KATE:

“Se rispetti la legge non avrai mai giustizia. Una volta compreso questo, il resto viene da sé.”

Molto bene, amici.

Alzi la mano chi conosce Claudio e Vergy.

Ho detto chi CONOSCE!

Ok.

Tutti gli altri, fuori.

Ahahahahha, scherzo, scherzo!!! Fermi lì. Non muovete un muscolo. Continuate a leggere. Ci siamo tutti? Ho la vostra attenzione? Proseguiamo nell’ennesimo delirio, alors.

Visto che qualcuno, là in fondo, non ha alzato la mano, faccio una piccola (davvero piccola altrimenti stiamo qui fino a Pasqua e io avrei da fare giusto due o tre cosine) premessa a tema personaggi principali.

Claudio e Vergy sono due ex militari. Amici sin dai tempi della mattanza vampirica (vedi romanzi Il 18° vampiro, Il 36° giusto e L’ora più buia) non hanno mai smesso di frequentarsi e dividere fortune (poche) e disgrazie (abbastanza da stremarli nel fisico e nella mente). Entrambi sulla cinquantina, entrambi abbastanza grossi da far paura, entrambi senza… be’, diciamo che nessuno dei due naviga nell’oro. Claudio, a onor del vero, una casa ce l’ha. Ma in questo momento storico è affittata a un gruppo di persone la cui nazionalità è sconosciuta e comunque non molto importante. Sostiene che potrebbe sfrattarli e tornare a casa sua, e noi siamo d’accordissimo con lui, ma poi riflette anche sul fatto che se li sfrattasse sarebbero loro gli infelici e i senzatettto e questo non fermerebbe certo la spirale di miseria che permane nella situazione attuale. Insomma, Claudio è fatto così e ce lo teniamo così.

Vergy una casa l’aveva, ma attualmente è nelle mani del Comune perché inagibile. Potrebbe riprendersi casa sua solo pagando delle spese accessorie e lui non è che ne abbia molta voglia. Ma, voglia a parte, quei soldi non li ha, il che rende tutto molto più chiaro. La casa di Vergy, quando era in piedi, era anche un bel bocconcino. Una villa antica. Sapete no, soffitti alti, finestre ampie, caminetti, giardini un po’ inselvatichiti. Quella roba lì. Poi vabbè il tempo, la consunzione, i vampiri, i terremoti, i vandali, e lo stesso Vergy hanno contribuito a renderla… ehm… pittoresca e creepy vi può andar bene? Ma della casa di Vergy non occupiamoci più, non è agibile, quindi il problema non si pone.

Claudio, oltre a essere un inguaribile sentimentale e a soffrire di depressione e a imbottirsi di antidepressivi e ansiolitici si è anche sparato in bocca. O almeno. Voleva spararsi in bocca, poi però ha preso la guancia e adesso è un tantinello sfregiato, ma anche di questo non ci deve interessare, e se volete sapere tutta la storia, o miei dolcissimi e ignorantissimi amici, dovrete per forza cominciare dall’inizio e leggervi almeno qualcuno dei libri precedenti a questo.

Credo (forse da qualche parte viene detto, ma non ne sono sicura e non posso rileggermi adesso tutti i libri di Vergnani) che Vergy sia alto sui due metri e pesi sui centoventi chili. Di muscoli, eh. Solidi muscoli italici sviluppati sul campo, irrobustiti a forza di calci in culo dati ai disonesti, ai cattivi, alla feccia dell’umanità. Le hanno viste tutte, i nostri due amici. Tutte. Mostri di ogni genere, non necessariamente di fantasia. I mostri peggiori che i loro occhi hanno visto erano umani come loro. Avevano due braccia, due gambe, due occhi. Uomini privati ormai di tutto. Non solo del cuore, ma anche del coraggio e dell’umanità stessa.

Claudio e Vergy vivono alla giornata, mangiano cinese di dubbia qualità, si allenano, bevono una quantità imbarazzante di caffè, di uova e di salame. Non disdegnano un bicchierino di qualcosa di forte e, non si sa bene come, finiscono sempre immischiati in una valanga di guai. Sempre.

Le cose, da quando sono tornati da Lovecraft’s Innosmouth (vedi romanzo omonimo), non sono molto migliorate, anzi. La città è sempre più abbandonata a sé stessa, sempre più in mano a bande di criminali senza paura e senza umanità. Un viluppo di gang pericolosissime che, senza più controllo delle autorità, sono ormai allo sbando più completo. Sembra quasi che tutto il terrore e il disgusto per lo stato attuale delle cose e per tutta la merda che è stata vista in passato sia sfociata in atti vandalici, uccisioni e violenze di ogni tipo. Certo, ne sono successe di cose. E forse era inevitabile che la situazione finisse al collasso più completo. Ma fa male, tutto questo. Fa male soprattutto ai nostri due protagonisti, senza casa, con pochi soldi in tasca (quelli ricevuti come compenso da Brandellini) e nessuna speranza per il futuro. Una vecchia stazione militare nei pressi di un cimitero sembra essere l’unica soluzione (almeno provvisoria) per la loro situazione. Ma non è semplice. Claudio sta malissimo, la depressione è ormai conclamata, l’oblio tenta di risucchiarlo e niente sembra potergli ridare un barlume di vita. Vergy ci prova a scuoterlo, ma a poco conta. Sa che il suo amico si riprenderà. Forse. Col tempo. Loro hanno bisogno di fare, di esserci, di combattere. Forse non lo sanno nemmeno loro, forse è un’idea solo mia, forse sto anche sbagliando. Ma le cose stanno così: per quanto loro si ribellino all’idea di uccidere, scappare, rincorrere, seguire, sparare, ricucire ferite, seppellire amici… loro trovano forza vitale in questo. Tornano a respirare come pesci ributtati nel loro acquario. Ho detto acquario, non mare. È pur sempre una prigionia. Ma una prigionia che ti tiene in vita.

Fino a quando gli eventi non precipitano. No, nessun mostro. Nessun vampiro. Solo un sussurro nell’ombra, di notte, in un cimitero. Dicono si chiami Bisbiglio, dicono che sia senza pietà. Dicono se la prenda con chi la coscienza sporca. Dicono faccia cose terribili. Dicono che anche i più cattivi temono il Bisbiglio. Fa paura. Sta nell’ombra, è invisibile, sussurra, è presagio di morte imminente. Di lui, solo una sagoma nel buio, una figura nera e incappucciata. Silenziosa come la morte stessa. Le cose precipitano ulteriormente (è il minimo) quando un ricco signore di nome Verda li convoca nella sua villa. Verda vuole vendetta (e chi non la vuole?). Qualcuno ha ucciso suo figlio in maniera atroce e quel qualcuno deve essere ucciso. Deve sparire dalla faccia della terra. Quel Bisbiglio, quello che uccide gli uccisori, deve essere fatto fuori, e subito. Deve pagarla cara, e subito. Claudio, Vergy e Matt (il nano ivoriano caro ai lettori di Vergnani) lo hanno visto. Il Bisbiglio, a loro, del male non ne ha mai fatto. Ma perché? E chi è questo terribile assassino? Perché continua a gravitare attorno ai nostri senza mai palesarsi ma senza nemmeno far loro del male? Il cerchio si stringe sempre di più.

Nel buio e nel freddo della notte, nel caldo afoso del giorno, tra le macerie di una città una volta prospera e bellissima, Claudio e Vergy tentano di rimanere ai margini di una storia che però non fa altro che avvilupparli pagina dopo pagina, passo dopo passo, ipnotizzandoli quasi, sussurrando il loro nome come a incantarli. Molto presto, invece che ai margini, si troveranno proprio in mezzo a una tempesta di proporzioni gigantesche, in mezzo a un turbinio di orrore che non potrà lasciarli indifferenti, perché loro, lo abbiamo detto, un pochino hanno bisogno di queste cose. E queste cose hanno bisogno di loro, noi lo sappiamo.

Perché non gli ho dato un voto?

Mi è stato detto (pur scherzando) che poiché tra me e l’autore c’è un forte rapporto di amicizia, la mia recensione sarebbe stata sicuramente positivissima. La frase, voi capirete, mi ha messo un filo di pepe al culo e io, da Novembre a oggi, il libro non l’ho recensito apposta. Ne avrei proprio voluto stare fuori, da questa storia. Ignorare questo libro e lasciar perdere tutto. Tanto, la mia voce non sarebbe stata autorevole. Poi ci ho pensato. Ho pensato che a me sarebbe piaciuto recensirlo. Che ci tengo, a questo libro. Che lo hanno recensito tutti e perché io no? Chi sono? La figlia della serva? Io l’avrei recensito eccome. Dunque, l’ho riletto. Lo avevo già letto in bozza, e poi ancora e ancora. Lo sapevo quasi a memoria, ma l’ho riletto, ho voluto farlo, ne avevo bisogno per poter scrivere qualcosa che fosse interessante e giusto. Non gli darò un voto. Non mi interessa e non deve interessare a voi. Il mio voto sarebbe comunque giudicato. Se fosse alto: “Ah ma figurati, col rapporto che hanno!”. Se fosse basso: “L’ha fatto per depistarci, perché il voto alto sarebbe stato giudicato!”. Non sono prevenuta, credetemi.

Nessun voto, ma qualche considerazione, dunque.

A volte si muore è il primo vero giallo di Claudio Vergnani che ha deciso di spostarsi su altri piani narrativi per suo puro divertimento e per mettersi, ancora una volta, alla prova. Rimane un maestro dell’horror e l’horror viene fuori, prepotente, qui e lì. Nelle magnifiche atmosfere, nelle scene violente, in questa Modena che, noi ricordiamo, ha ancora dei vampiri che vagolano nelle Concimaie. L’horror non può staccarsi da Vergnani, noi lo sappiamo e ne godiamo in ogni singola espressione narrativa lui voglia donarci.

Nonostante il suo stile migliori di libro in libro, io continuo a ravvisare una tendenza alla prolissità che seguita a impensierirmi. Voi lo sapete: i mappazzoni non mi piacciono più. Ho poco tempo, poca pazienza, poco stupore. Ma questa, che lo si voglia (io no) o no (lui sì) è parte della sua cifra stilistica. Pare che aggiungere parole alle parole convalidi un’idea e pare che questa cosa convinca anche i suoi editor. Ma non convince me, che avrei tolto almeno una cinquantina di pagine. Almeno. Ma attenzione. Non sto dicendo che quelle cinquanta pagine siano inutili. Nulla lo è, perché lui è uno scrittore troppo capace e professionale e scafato per sprecare parole inutili e per rincoglionire con giri di parole. Ma se è pur vero che niente verrà sprecato o gettato o che per nessun episodio ci sarà da sbuffare, è altresì vero che le molte parole, almeno per quanto mi riguarda, distraggono.

Dei personaggi principali poco dirò: sono tra i migliori personaggi che il panorama letterario italiano conosca. Il fatto che non siano conosciuti dal grandissimo pubblico e dalle major non ha nessuna importanza e non toglie un briciolo di splendore a questi due capolavori. Presenti, lucidamente folli, colti, autoironici. Sono i migliori amici che tutti vorremmo. I nemici che mai vorremmo avere alle nostre spalle.

I personaggi secondari, anche quelli che arrivano e subito sembrano scomparire (come l’astuto e malvagio Dottor Schweitzer) sono perfettamente caratterizzati e inseriti sapientemente nella storia. Prova è che, nonostante gli episodi siano abbastanza brevi, non vi dimenticherete di nessuno di loro perché anche loro, come tutti gli altri, contribuiscono a fare di questo libro quello che è.

Il plot è quello di un giallo classico che Vergnani si annoiava a tenere troppo lineare. A dare quel pizzico di pepe in più, quello zick in più a cui l’autore ci ha abituati, tante situazioni al limite del paradossale, moltissimi nemici bizzarri (gente simpatica che va in giro vestita da coniglio con orecchie che sono lame e fiori che spruzzano acido, tanto per dirne solo una) molti amici ritrovati (non tutti graditi dalla sottoscritta) e tanta, tantissima adrenalina. Topica, a mio avviso, la scena dentro la villa di Verda. Un esempio di lucidità e abilità narrativa che ha continuato a deliziarmi anche dopo molto letture.

Tema portante del romanzo è quello della giustizia, tema molto caro all’autore che, attraverso i suoi ormai molti romanzi trova il modo di parlarci di sé stesso, dei suoi ideali e dei suoi valori spingendoci a forza verso varie riflessioni sulla vita e su noi stessi che non sempre si rivelano essere piacevoli. Oserei dire quasi mai.

Ma la firma di Vergnani si ritrova ancora una volta verso la fine, nelle ultime pagine, in una chiusa dalla bellezza commovente che, posso dirlo senza sembrare celebrativa, mi ha portato alle lacrime. Ma del resto ci siamo abituati, a questo, con lui. Dopo il casino, dopo la morte, dopo tutto quel sangue arriva sempre il momento che sembrerebbe discensivo e che invece si rivela essere tutto il succo del romanzo, tutto quello che bisogna sapere, tutto quello che si vuole sapere dopo aver finito un libro del genere.

Ci dev’essere una differenza fondamentale tra chi muore e chi non muore. E non credo che si tratti sempre di una morte fisica, quanto di quella morale. C’è una differenza fondamentale tra chi muore piano ogni giorno, lasciandosi vivere e chi decide di non morire, vivendo davvero, facendo davvero, ogni secondo di ogni minuto. Bisogna solo capire da che parte stiamo, se vogliamo morire oppure no.

La torre delle ombre

coverokmedia

Titolo: La torre delle ombre

Autore: Claudio Vergnani

Editore: Nero press

Anno: 2016

Pagine: 258

Prezzo: 15,00 euro per il formato cartaceo – Prossimamente disponibile anche in formato digitale

Il voto della Kate: 9

SINOSSI:

In una città consegnata all’anarchia, preda di grottesche e letali bande criminali, logorata da cambiamenti climatici e rassegnata a un futuro dove la speranza è il lusso di pochi, i due protagonisti – Claudio e Vergy – tirano a campare, cercando di resistere al logorio di una vita priva di senso e di sbocchi, grazie a una rigida routine giornaliera fatta di allenamento fisico, di strategie per procurarsi il cibo e di stratagemmi per sopravvivere agli artigli affilati di quella società che non offre alcuna protezione ai perdenti, agli abbandonati, ai reietti. Su questa metropoli in pieno degrado si curva minacciosa l’ombra della Torre, luogo di perdizione e malaffare da cui è bene tenersi alla larga. Almeno fino a quando la richiesta di aiuto di un vecchio amico, non porterà i due protagonisti a scalare il gigante di cemento e ferro alla ricerca dell’ultima scintilla di un antico valore, che potrebbe riscattarli da quell’esistenza di squallore. In questa nuova epoca nella quale il futuro si mescola al presente e al passato, i due amici si ritroveranno invischiati nel perverso meccanismo del Salone dei giochi, una nuova e crudele forma di intrattenimento dove il divertimento di pochi danarosi e senza scrupoli – si misura sulla sofferenza dei più deboli…

LA RECE DELLA KATE:

Si può leggere, leggere e ancora leggere. Si può leggere per scappare da qualcosa o da qualcuno, per dimenticare, per passione, per lavoro, per noia e per tutte queste cose insieme. Non c’è che l’imbarazzo della scelta, perché questa è l’era di Internet, di Kindle, del self-publishing, delle librerie virtuali, di quelle fisiche a due o tre piani. È l’era dell’emozione prêt-à-porter. Voglio essere uno scrittore? Scrivo qualcosa e lo getto su Amazon. Voglio leggere? Accendo il reader e scarico un libro a caso. Tutto e subito. Non c’è attesa, non c’è desiderio riposto. È un chiedere-avere in perfetto sincrono che, forse, qualcosa ci toglie.

Ma non è questo quello di cui volevo parlare; volevo invece dire che in mezzo a tutto questo, in mezzo a tutta questa disponibilità di materiale, di romanzi, di storie altrui, di idee altrui, di mondi immaginari, di possibili fughe dalla realtà… be’, rimaniamo comunque soli. Il libro inizia, il libro finisce. Spesso svegliandoci bruscamente, spesso senza lasciarci nulla più che un vago senso di delusione e di rammarico. Un altro libro terminato, un altro libro che tra poco più di quarantotto ore non ricorderò più. Quanti sono i libri che avete letto e che non ricordate in nessun modo? Se ne parlava giusto questa mattina in un gruppo Facebook che frequento: non ricordarsi le trame e i plot dei romanzi è cosa più comune di quanto si creda. Ma questo perché accade? Accade perché spesso leggiamo storie mediocri, inadatte, bastevoli giusto di un’occhiata, bastevoli giusto di una corsa sola andata per quella sterminata terra di nessuno chiamata Dimenticatoio. Non possiamo davvero ricordare tutto. Sarebbe inumano, e pericoloso e doloroso. Ed ecco allora che i nostri ricordi hanno il dovere di essere belli, meritevoli del nostro sorriso. Un bel libro è un libro immortale. Un bravo autore è un uomo che non conosce la morte.

Che sermone!

Proseguiamo…

Quello che volevo dire, e che sto elaborando in maniera molto faticosa, è che credo che, parlando un certo tipo di letteratura, Claudio Vergnani sia un immortale, e che i suoi lavori (tutti, nessuno escluso) siano, grazie alle loro caratteristiche peculiari, coraggiosi (che rarità, di questi tempi!) e memorabili. La torre delle ombre esce a breve distanza da Lovecraft’s Innosmouth – Il romanzo, nel quale abbiamo incontrato dopo molto tempo i nostri eroi (a me la parola antieroi riferita a loro due non è mai piaciuta molto, vi dirò) preferiti: Claudio e Vergy. In rete riuscirete a scovare più di una informazione su questo incredibile duetto letterario, da parte mia posso dirvi che viaggiano sulla cinquantina, che hanno trascorsi militari alle spalle, che non hanno un soldo e che si trovano molto spesso invischiati loro malgrado (anche su questo avrei qualcosa da dire) in faccende molto poco chiare che prevedono comunque che le cose vadano di male (spesso malissimo) in peggio (molto, molto peggio di quanto vi aspettereste). Sboccati, inclini alla violenza e dotati di una inconfondibile ironia, condividono casa, avventure, cibo e – crediamo – anche donne, quando necessario. La loro forza sono l’unione e l’assenza di paura. Morire è un’opzione nemmeno così remota. A piangerli, nessuno. Il trucco sta nel morire con dignità, chiudendo – come ricorda la quarta di copertina – i conti, così come deve essere fatto, così come si addice a un uomo.

Quanti anni sono passati dalle avventure de L’ora più buia? Non è dato saperlo, né sappiamo se la città vagamente descritta sia sempre Modena (ma si suppone, giacché è ancora in piedi la magione di Vergy), ma sappiamo che le cose hanno preso, per tutti, una piega brutta sotto molti aspetti. Il clima è impazzito, la terra non smette di tremare, il divario tra ricchezza e povertà si è fatto così evidente da sfiorare il grottesco e, ai margini della società, fisicamente e moralmente, le Concimaie, spazi abbandonati nei quali trovano rifugio gli ultimi tra gli ultimi, i derelitti, coloro che hanno abdicato al loro ruolo e i Vampi, quei vampiri mutilati e ridotti a esseri molto simili a tossici scampati alla mattanza vampirica ben nota ai lettori della succitata trilogia vampirica (Il 18° vampiro, Il 36° giusto, L’ora più buia). Claudio e Vergy offrono al lettore uno spettacolo ben misero: sono sì vivi, ma ben diversi da come li ricordavamo. La cicatrice a stella sulla guancia di Claudio racconta di un tentativo di suicidio, le condizioni in cui versa la casa di Vergy parlano di abbandono e di miseria, di assenza di speranza. Non li ricordavamo così, proprio no. Logori e rattoppati non sono che una vaga ombra dei due protagonisti che avevano sfidato, vincendo, la Morte. Ora, forse, se la Morte non cala la sua falce su di loro è per un inconsueto gesto di pietà. Sono stanchi e sono sporchi, sono a un passo – crediamo – dall’abdicare a loro volta al loro ruolo. Digrigniamo i denti: non possono farlo. L’incontro con Matthew, il nano ivoriano già co-protagonista delle avventure vampiriche, pare un buon inizio. Vero che sicuramente ci saranno guai all’orizzonte, ma se non altro, forse, Claudio e Vergy si riscuoteranno dal loro torpore.

Pare proprio che il nano abbia svoltato: dalle auto di lusso alle guardie del corpo, dalla villa con piscina ai sigari costosi, tutto parla di denaro, di possibilità e di agiatezza. E quando si parla di soldi, Claudio e Vergy non possono che provare, se non altro, ad ascoltare e capire. Matthew ha bisogno di loro. Una ragazza, e non una ragazza qualsiasi, è stata rapita. Magda è una vampa, ma questa è la cosa meno importante di tutte. La cosa più importante è che Matthew è innamorato di lei e che a rapirla è stato Leon.

«È… è diverso. Come faccio a spiegare? Non ho mai visto uno così. Gli affideresti tua madre dalla fiducia che ti ispira, ma preferiresti avere a che fare col demonio piuttosto che con lui, se succedesse qualcosa che non gli piace. L’ho visto indossare completi più costosi del mio Suv, al centro dell’attenzione a un cocktail party e l’ho visto a braghe corte e a torso nudo in posti dove nemmeno voi due andreste senza una tuta antibatteriologica.»

Questo è tutto quello che sapremo di lui: metà demone metà angelo, a suo agio in ogni circostanza, spietato e crudele, dotato di una forza incredibile, uomo al di là del bene e del male, Leon ha anzi dato vita a un nuovo concetto di bene e a un nuovo concetto di male. Male che probabilmente non definirebbe nemmeno tale, poiché lui si limita a fare ciò che la sua morale e i suoi tempi gli suggeriscono come necessario. Lo immaginiamo fascinoso, per nulla rozzo, dalle spalle larghe e il cranio probabilmente rasato, il petto ampio e un ghigno sul bel volto. Probabilmente, per un solo attimo, resteremmo intrappolati in quell’aura speciale che ha. Probabilmente dimenticheremmo che quelle mani sono in grado di spezzare un collo con uno sforzo minimo. Probabilmente dimenticheremmo che non conosce pietà o senso di giustizia.

Sbaglieremmo.

Ma Claudio e Vergy hanno già visto, se non tutto, molto. Leon non è che l’ennesimo intoppo, l’ennesima – direbbero loro – rottura di cazzo. Niente più che un fastidio. Magda verrà riportata al nano e tutto tornerà al suo posto. Loro potranno avere i soldi e Matthew tornare nel buco dal quale è uscito.

Ma se le cose andassero così, noi non saremmo di certo qui a parlarne. E non sarebbe un horror-pulp. E non sarebbero loro, Claudio e Vergy. Che questa volta fanno l’errore grossolano di sottovalutare il nemico e di trovarsi, in questo modo, invischiati in una faccenda molto più grossa di loro che molto ha a che vedere con la torre che dà il nome al romanzo.

«Incontri di boxe a pugni nudi?» domandai.

«Sì. Pugni, calci, testate, colpi nei coglioni… Nessuna regola».

«Il marchese di Queensberry ne andrebbe orgoglioso. E come finiscono, di solito? Il perdente viene reclutato in un coro di voci bianche?»

«Uno dei due viene buttato di sotto».

«Ah, proprio così, alla mannaggia la miseria… E a che piano sono?»

«Non lo so di preciso. In alto, comunque. Dove ci sono le intelaiature. Cinquantesimo o giù di lì».

Cinquanta e più piani di una torre mai portata a compimento rifugio di povera gente che lì ci vive, senza finestre, senza nemmeno i muri, costretta a una non-vita misera e piena di paura. Cinquanta e più piani di violenza, di sadismo, di ombre che rifuggono la luce. Cinquanta e più piani di collusione, silenzio, morte. Questa è la torre, vera e ultima dimora di Leon, che ora è da trovare.

E uccidere senza pietà.

La forza viene dall’ingiustizia, dal dolore, dalla rabbia. Ed ecco che Claudio e Vergy tornano quelli di un tempo, in grande spolvero, decisi a lasciare questo mondo, se qualcuno lo deciderà, ma solo dopo aver fatto ciò che è necessario.

Vergnani torna con un romanzo distopico sì, ma anche pulp e horror dalle tinte foschissime. La torre che tanto bene e tanto accuratamente ci viene descritta è un concentrato di tutta quella malvagità che ci fa terrore e che pensiamo non possa toccare mai le nostre borghesi vite. Ma se il futuro fosse quello? Se stessimo solo volgendo lo sguardo altrove ma la Torre fosse già qui, vicino a noi, nelle nostre città? Se fosse tanto vicina da poterla toccare? Dove ci collocheremmo, noi? Che ne sarebbe di noi? Saremmo disposti, pur di salvarci, ad accarezzare il Male? Cos’è che ci rende uomini? Una casa, una famiglia, qualche soldo da spendere o quella meravigliosa e umana integrità che l’autore spesso cita, seppur senza mai giudicare? Vergnani prende in mano un grosso specchio, e lo fa con fatica. Ce lo piazza davanti e ci obbliga a guardare ciò che il riflesso ci rimanda. Ci piacerà, ciò che vedremo?

La torre delle ombre riprende non solo i personaggi, ma anche lo stile dei precedenti romanzi dell’autore, e gli amanti del genere avranno quindi il piacere di ritrovare sì vecchi amici (incontriamo anche Niccolò e l’Alamo) ma anche quello stile inconfondibile che fa dello scrittura di Vergnani un vero e proprio marchio, riconoscibile e nuovo, fresco e diverso, stupefacente e sfaccettato. Avrebbe potuto accontentarsi dell’ovvio, ma non è caduto nel tranello. Avrebbe potuto sfruttare quei vampi, avrebbe potuto cavalcare l’onda del successo della trilogia, avrebbe potuto – come si dice – allungare il brodo e giocare una partita già vinta in partenza. Ma così non è stato. Vergnani è l’uomo delle sfide e della diversità, dell’innovazione. Humor, horror, pulp e noir si fondono per creare qualcosa di estremamente nuovo che non riesce a trovare collocazione in nessuna categoria conosciuta. Lo hanno definitivo horror sociale, ma io alzo le mani. Non ho le competenze e non ho il cuore di incasellare questo autore che riesce a ubriacarci di parole, commuoverci, spaventarci, indignarci.  La torre delle ombre offre al lettore momenti di vera poesia, scorci drammatici eppur struggenti strappati alla rozza brutalità della morte e della violenza.

Come sono solita dire: leggetelo. E basta.

 Due doverose menzioni d’onore che potrei inserire nella rece ma che invece inserisco qui, in calce, perché la rece è mia e decido io.

  1. La suddivisione in capitoli: scelta che mi è piaciuta moltissimo e che rende la lettura più facile, veloce e intuitiva. Il nome dato ai capitoli, che sembrano rubati ai biscotti della fortuna cinesi, sono una genialata.
  2. La cover: so che ha ricevuto tantissimi complimenti, aggiungo la mia voce al coro. Potente, potentissima. Esprime tutto quello che deve. 

Sei bella come sei

Sei-bella-come-sei

Titolo: Sei bella come sei

Autore: Clio Zammatteo

Editore: Rizzoli

Anno: 2015

Pagine: 285

Euro: 17,00 euro in versione cartacea – 7,99 euro in versione digitale

Voto: 7

SINOSSI:

Quando Clio atterra a New York ha in tasca tanti sogni e già dal primo giorno si accorge che la vita in America è un’avventura imprevedibile! Si trova catapultata in un nuovo mondo, ricco di piccole e grandi sfide: Giorgia, l’amica con cui ha sempre condiviso ogni cosa, è come sparita nel nulla con un ragazzo appena conosciuto, quando compare il nuovo vicino di casa, che tra uno scherzo e qualche risata riesce a colorare anche i momenti più bui. Clio, infatti, è cotta dell’inarrivabile di turno: ha occhi solo per Lui, che invece non la degna nemmeno di uno sguardo. E, come se non bastasse, c’è da conquistare quel posto da make-up artist alla New York Fashion Week! La Grande Mela si rivela soprattutto il luogo delle opportunità e degli imprevisti: la città perfetta per sentirsi liberi, per imparare a essere se stessi e seguire la propria passione. A migliaia di chilometri da casa – dove è rimasta l’amatissima nonna, sempre pronta a darle un consiglio e un incoraggiamento via Skype – Clio inizierà a riconoscere cosa (e soprattutto chi) vuole al suo fianco per il futuro, riuscirà a fare pace con il passato e a innamorarsi delle parti di sé di cui finora ha sempre avuto paura. E se incontrare un ragazzo che ti ripeta “sei bella come sei” non è semplice, è ancora più difficile arrivare a crederci davvero. Perché i sogni si inseguono, ma per raggiungerli non bisogna arrendersi mai!

LA RECE DELLA KATE:

Mi piacciono i profumi poi però, appena li sento sulla mia pelle, vengo presa dalla voglia irresistibile e irrefrenabile di una doccia. Una lunga doccia che mi tolga di dosso quell’odore estraneo e chimico. Nella mia vita ho riempito tavolini da bagno su tavolini da bagno con le migliori e più famose fragranze in commercio ma tempo pochi mesi e li ho buttati, usati come deodoranti per il bagno, per le stanze, per la casa, finanche per il giardino; oppure li ho regalati ad amiche e parenti. Cartier, Dior, Armani… tutti andati.

Insomma, mi capita più spesso di quanto vorrei di essere innamorata di un concetto ma di non riuscire, poi, a trasferire questo concetto nella mia vita.

Il trucco è uno di questi tanti (troppi…) concetti.

Le mie sorelle hanno rispettivamente sei e sette anni più di me, e questo significa che quando le due sgarzoline erano nel clou della loro vita in società, diciamo tra i quindici e i diciotto anni, io ero poco più che spannolinata, quella terribile età di mezzo nella quale si è piccoli ma non più molto teneri e nessuno, bene o male, ti considera granché.

Insomma, il momento più eccitante della mia giornata (fatevi voi le vostre idee) era andare in bagno, farmi piccola piccola, fino a rendermi quasi invisibile. In un angolo buio e stretto attendevo con ansia che cominciassero a truccarsi. Erano i ruggenti anni ’80, gli anni delle lacche spray, delle anelle alle orecchie, delle frange gonfie e improbabili. Sotto le narici, se chiudo gli occhi, ho ancora l’odore della cipria in polvere che usava mia sorella maggiore.

Non sono cambiata molto: venticinque anni dopo, non potendo (e volendo ahahah!) guardare le mie sorelle, mi chiudo nel silenzio del mio studio e guardo lei, la reginetta di Youtube italia: Clio Zammatteo.

No, io non mi trucco. Non capisco nulla di colori, cromie, accostamenti, non so truccarmi e se ci provo succedono delle cose molto brutte. Mi limito a una skincare mediocre, un fondo, un po’ di blush, molto mascara. Stop.

Ma guardare Clio, per me, non ha nulla a che vedere col make up. Si tratta di relax, di sana invidia, di azzeramento neuronale. In una parola: mi piace. Mi piace lei, il suo accento, il suo blog, il suo sorriso, mi piacciono i suoi video a spasso per New York, mi piace tutto. Mi ero ripromessa di sfruttare le ferie natalizie per leggere solo e soltanto libri scelti da me e… ta-dan! Ho scelto (anche) lei!

Clio è una ragazza semplice che mischia dialetto veneto-italiano corretto-inglese. Per questo immagino che Elisa Gioia (scrittrice romance) sia poi la persona che si è occupata di rendere leggibili i racconti (molto spassosi) di Clio.

La storia è semplice e non particolarmente originale: Clio decide, con un’amica, di abbandonare l’Italia e cercare fortuna nella Grande Mela come MUA (acronimo, mie care caprette, di Make Up Artist). Scuola di make up, scuola d’inglese, una grande città, le difficoltà legate all’integrazione, alla lingua diversa e ostile e quel ragazzo vicino di casa che si ostina a volerle ronzare attorno. Ed è così che la vera vita americana di Clio, grazie a Elisa Gioia, si trasforma nel tempo di un Amen in un chick lit dei più classici, sospeso a metà tra realtà e un pizzico di finzione che rende tutto molto, molto più romantico e affascinante. A farla da padrone sono una New York che sempre più mi attira e mi ammalia, e la bellissima storia d’amore tra lei e Claudio, suo attuale marito e compagno di lavoro (lui ha mollato la sua carriera per seguire lei, i canali YouTube e i blog… non è rooooooooomanticisssssimo???).

Che dire?

Pur non essendo destinato a un Bancarella, mi sono genuinamente divertita. La storia vera “tagliata” a chick lit mi ha fatto passare qualche ora spensierata e mi sono trovata, anzi, a centellinare la lettura per non finire subito il romanzo  🙂

Consigliato a tutte le amanti e le appassionate di make up e a tutte le fans di Clio. Buona lettura!